Il Rinascimento della moda toscana

Basta delocalizzazione, le griffe sono tornate a produrre qui «Tecnologia e materiali pregiati, così ci siamo reinventati»

Una terra, la Toscana, di grandi eccellenze, dove riconoscere il “bello” è più semplice che altrove, avendo la vista allenata da panorami mozzafiato e da opere d’arte che tutto il mondo ci invidia. Un’invidia che oggi, all’inizio del Terzo Millennio, spazia anche in altri campi, come quello della moda. Il fashion, per dirla all’inglese, che ha superato anche la couture francese. Un settore che, crisi o non crisi, tira ancora come dicono le statistiche. E anzi, dopo che da una quindicina d’anni a questa parte molte aziende (anche del lusso) avevano delocalizzato le produzioni in Paesi – dalla Cina alla Romania, dal Vietnam alla Turchia e tanti altri ancora – dove materie prime e manodopera sono più a basso costo, si sta assistendo ad un ritorno. Non proprio con il cappello in mano, ma quasi. Perché il ritorno ha un preciso significato: la sconfitta del profitto a tutti i costi e la necessità – perché il consumatore, specialmente quando circola meno denaro, diventa molto più attento – di riportare a casa propria quelle produzioni che necessitano di qualità e artigianalità che solo il made in Italy, e in particolare il Made in Tuscany, sanno dare.

La clientela del fashion è esigente: è disposta a pagare, ma ora che c’è la recessione, insieme alla griffe vuole anche prodotti al top che la Toscana del fashion è capace di dare. Una filiera corta, in grado di fornire materie prime – dai pellami di Santa Croce sull’Arno (a Ponte a Egola il prodotto icona è il cuoio per “costruire” le suole delle scarpe) ai filati e ai tessuti di Prato – e una manualità d’eccezione (dalle camiciaie alle ricamatrici, dagli artigiani pellettieri agli orafi). Insomma, la delocalizzazione non va più di moda e chi, restando a casa propria, ha investito in tecnologia e capitale umano, alla fine si è trovato fra le mani la carta vincente. In questo modo il settore della concia, a Santa Croce sull’Arno, ha chiuso il 2012 con più 3% di fatturato .

Nella conceria Dolmen, fondata nel 1979, si lavorano materie prime pregiate, alle quali il famoso “valore aggiunto” dell’artigianalità dà il tocco d’artista. «La nostra produzione è concentrata su pellami esotici come pitoni, che arrivano dal sud est asiatico; alligatori, che acquistiamo negli Stati Uniti; lucertole di provenienza argentina o indonesiana; struzzi sudafricani e cavallino, ricavato da vitelli neozelandesi o francesi» racconta Luca Giananti, uno dei cinque soci dell’azienda. Il processo di lavorazione punta molto sulla manualità specialmente quando pelli come quelle di pitone vengono sfumate e colorate: «I nostri dipendenti le dipingono con il pennellino squama per squama, per ottenere quello che il mondo della moda ci chiede».

Le griffe hanno i loro uffici stile. Ma anche in conceria ci sono gli stilisti che “inventano” ogni mese nuovi prodotti, colori e lavorazioni. Che le maison non si lasciano scappare: basta pensare al saffiano, una delle pelli che Prada, fra i marchi iper fashion, usa per le sue (costose) borse e scarpe. Il saffiano è un vitello stampato, inventato a Santa Croce, dove le griffe del lusso attingono a piene mani, a partire da Gucci che si è addirittura comprato un’intera conceria. Si lavora sodo, e i mestieri meno appetibili in conceria vengono svolti perlopiù da immigrati senegalesi. Gli italiani, che hanno l’artigianalità nel loro Dna, concorrono invece alla creazione di prodotti d’alta gamma. «Non siamo stati particolarmente colpiti dalla crisi – dice Giananti – abbiamo sentito i benefici dell’export e dei mercati sui quali vanno le griffe». Una conceria come la Dolmen, che conta 120 dipendenti (un quarto vent’anni fa), esporta il 30% della produzione, quota che sale al 90% se si considerano i prodotti finiti realizzati con i pellami. «È vero che si sta assistendo ad un grande ritorno delle lavorazioni in Toscana e in altri distretti italiani – prosegue Giananti – Nel nostro territorio ci sono comunque le competenze giuste. Come c’è stato l’esodo verso Paesi dove si produceva a basso costo, ora si assiste al viaggio di ritorno».

Un viaggio che porta anche nei calzaturifici di Santa Maria a Monte, Castelfranco e Fucecchio dove la pelle viene trasformata in scarpe glamour. Da Gemini viene prodotto il marchio Gianna Meliani (che è il vero nome della designer), ma vengono lavorate anche le collezioni di griffe sia italiane che straniere. «La qualità che noi proponiamo è quella di sempre – dice la stilista – Continuiamo il nostro lavoro che è “made in Tuscany” anche se il prodotto finale, vista la crisi interna, va proposto su mercati esteri come la Cina e il Giappone, dove c’è voglia di moda».

«Il consumatore vuole prodotti fatti a “regola d’arte” per cui le griffe hanno cominciato a riaffacciarsi per la produzione nei nostri laboratori» racconta Andrea Nardi, terza generazione in fabbrica, la Bianchi e Nardi di Scandicci (una sessantina di lavoranti-artigiani), che ha prodotto e produce per le griffe, ma ha anche ripreso a lavorare pitoni e coccodrilli per le borse da donna a marchio proprio, vendute nella boutique Parri’s di via Guicciardini a Firenze. «Usiamo pellami che esaltano la manodopera toscana. Perché – dice Nardi – non abbiamo riscontrato solo un ritorno al made in Tuscany , ma anche il desiderio di chi compra, di avere un oggetto bello, fatto bene, mentre fino a due o tre anni fa era più importante il logo. A Santa Croce conciano le pelli – spiega Andrea – e noi, insieme ad altre aziende, a Scandicci le trasformiamo in borse».

«Per le produzioni più industriali ricorriamo anche a piccole aziende attorno a Firenze – dice Nardi – mentre per i prodotti di gamma media e alta impieghiamo i nostri lavoranti che sono artigiani di quelli veri, che restano anche se sono in età pensionabile. In azienda abbiamo egualmente diversi giovani e per questo i nostri clienti restano sorpresi. Ma noi puntiamo sui giovani. Alcuni hanno frequentato la scuola di pelletteria, altri invece cercavano un lavoro: in entrambi i casi vanno addestrati sul campo. Affianchiamo il giovane ai dipendenti di esperienza e così si possono tramandare i segreti dei prodotti fatti a regola d’arte. Anch’io, che sono la terza generazione, sono partito nel 2000 dalla gavetta per crescere giorno dopo giorno».

Di Elisabetta Arrighi
Fonte IL TIRRENO

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